Le ali dell’eros e l’antropologia filosofica di Max Scheler (1999)

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Abstract

E’ il moto esonerante dell’eros a tracciare il primo provvisorio confine fra l’uomo e l’animale, creando l’intelligenza e l’occhio umano, e con esso un nuovo orizzonte percettivo. Rinviando l’appagamento, l’eros crea una nuova dimensione temporale del tutto assente nell’animale, che rende il comportamento dell’uomo libero e imprevedibile. In altri termini l’eros consente all’uomo di uscire dalla chiusura ambientale in cui rimane immerso l’animale per raggiungere l’apertura al mondo.

 
 
Qui vengono riportate alcune pagine dal seguente articolo:  
G. Cusinato, Le ali dell’eros. Per una riconsiderazione dell’antropologia filosofica di Max Scheler, in: «Annuario Filosofico» XV 1999, pp. 383-420.
 
L’eros riguarda tuttavia solo una parte del problema. Un ulteriore approfondimento di queste tematiche anche in riferimento al momento agapico è presente in: 
G. Cusinato, La Totalità incompiuta, Milano 2008.

 
Le ali dell’eros e l’antropologia filosofica (1999) 


 […]
 
4. L’apertura al mondo come rivoluzione dell’ordine dei valori

Se l’essenza dell’uomo consiste nella capacità di «aprirsi al mondo» occorre partire da qui per comprendere cosa differenzia l’uomo dagli altri esseri viventi. Nel 1922 Scheler arriva ad una precisazione significativa: «Nell’uomo non si verifica solo uno sviluppo quantitativo superiore dell’agente psichico che possiamo già trovare nell’animale. Nell’uomo si realizza in primo luogo una svolta, anzi se si vuole addirittura una sorta di rovesciamento del rapporto fondamentale che sussiste fra l’ordine vitale e spirituale […] E questa svolta, questo rovesciamento, questo atto metafisico, che esso rende possibile, è ciò che significa “divenir uomo”» (GW XII, 129). Il divenir uomo implica in primo luogo una Umschwung, una Umkehrung, cioè un rovesciamento della tavola dei valori della logica organica a favore di una nuova classe di valori, ed è attraverso tale rovesciamento che si attua l’apertura al mondo.

L’uomo non è il frutto di una e-voluzione o di una in-voluzione della vita quanto piuttosto espressione di una ri-voluzione cosmica, si tratta infatti «di una nuova classe essenziale, di un “regno” di persone che non si è affatto “evoluta”, così come non si sono “evoluti” i colori, i numeri, lo spazio e il tempo e le altre entità originarie. Questo regno si apre e si manifesta in determinati punti del mondo vivente» (GW III, 191). Ad esso corrisponde la classe essenziale della sfera personale.

 Si tratta di una vera e propria «rivoluzione cosmica, anzi metacosmica. E l’uomo terrestre è solo un segno, un caso, un esempio di ciò». L’uomo è quindi innanzitutto la conseguenza della trasvalutazione dei valori che orientano l’animale, è l’apparizione di un diverso ordo amoris. Chiamando in causa Agostino e Malebranche, Scheler interpreta tale rivoluzione come un’illuminazione capace di spandere nuova luce sul mondo. È attraverso questa nuova luce che ogni azione dell’uomo acquista da subito un senso nuovo: dal sorriso di un bambino al gesto di una mano, l’atto più semplice risulta qui carico di un mondo di valori nuovo.

Il concetto di apertura al mondo significa trascendenza e uscita dal mondo-ambiente, dal comportamento istintivo e pulsionale, dal riduttivismo psicologico. Altrettanto l’uomo è colui che eccede il mondo ambiente, l’istinto, l’intelletto strumentale, ecc.. Nell’apertura al mondo l’uomo dimostra di potersi emancipare dal binario e dalla pressione della logica organica ed egologica. 

5. La critica a Freud. 

Nel 1925 A. Seidel, un giovane studente della sinistra rivoluzionaria tedesca ancor oggi praticamente sconosciuto, concluse un’opera dal titolo Bewußtsein als Verhängnis, e dopo aver inviato il manoscritto ad un amico, con la preghiera di occuparsi della pubblicazione, mise in atto un suicidio premeditato da tempo. Il testo comparirà poi postumo nel 1927 suscitando l’immediata ammirazione di Scheler ed esercitando successivamente una sottaciuta influenza anche su Gehlen[1]. In quest’opera Seidel procede ad un’interessante reinterpretazione della teoria freudiana della sublimazione proponendo appunto la tesi della coscienza come destino ineludibile per un essere, come l’uomo, caratterizzato dall’eccedenza pulsionale.

Muovendo all’attacco di tale ipotesi Scheler osserva: «Seidel trae da Freud la conclusione che tutta la nostra cultura umana (filosofia, scienza, religione, arte, istituzioni sociali e del diritto) siasolo un “surrogato” derivante dalla inadeguatezza del soddisfacimento pulsionale. Tuttavia perché l’uomo inibisce? Seidel risponde: poiché l’uomo ha un’eccedenza di libido il cui soddisfacimento lo condurrebbe alla rovina. No! Solo attraverso il rifiuto sorge l’eccedenza» (GW XII, 66). L’obiettivo polemico di Scheler è naturalmente la tesi secondo cui l’uomo, la cultura, la morale ecc., deriverebbero dal piano pulsionale o sarebbero in qualche modo riconducibili ad esso. Si tratta dell’ipotesi naturalista in cui si può inscrivere anche il tentativo di Freud, ma la critica di Scheler non risulta insterilirsi in una polemica preconcetta.

Molte sono le idee che Scheler riprende da Freud, prima fra tutte quella secondo cui l’energia e la forza non appartengono originariamente allo spirito e ai valori più alti, ma al contrario risiedono nelle pulsioni biologiche più primitive, nel Drang. Ed è sempre sotto l’influsso di Freud che Scheler svilupperà anche la sua famosa teoria dell’impotenza dello spirito.

Freud aveva operato una radicale reinterpretazione della teoria dell’eros platonico che però non viene seguita da Scheler quando essa arriva a ricondurre, o meglio, a fondare ontologicamente i livelli superiori su quelli inferiori. Se vi è uno spostamento di energie verso l’alto esiste infatti anche un processo di orientamento dall’alto verso il basso: è questo l’aspetto che Freud cancella completamente nella sua reinterpretazione dell’eros platonico, aspetto che invece viene reintrodotto con forza da Scheler. Si tratta allora di riaffermare con Freud l’impotenza dello spirito e del kosmos noetos, ma di riconoscere anche il disorientamento del Drang e dei livelli inferiori, in modo da concepire la sublimazione come risultato di un duplice movimento e di una compenetrazione fra Geist e Drang.

Nell’ipotesi di Seidel e Gehlen l’uscita dal comportamento istintivo produce una situazione di eccedenza pulsionale che può mettere a repentaglio l’esistenza dell’essere umano, il quale è pertanto obbligato a reprimere e autodisciplinare le proprie pulsioni attraverso l’istituzione della morale, della cultura, del diritto, della religione, ecc., cioè attraverso la costruzione di un nuovo ambiente artificiale in cui possa imparare a sopravvivere. L’obiezione più immediata che Scheler muove a questa suggestiva ipotesi è quella di negare che un’eccedenza pulsionale, dapprima sfuggita patologicamente al controllo dell’istinto, possa poi essere in qualche modo inibita o addirittura regolata dallo stesso istinto di sopravvivenza. La morale poi non può essere considerata al contempo causa ed effetto del processo di inibizione. Occorre però prendere atto che sia Freud che Gehlen hanno cercato di risolvere questa aporia in vario modo, ad es. attraverso le analisi sul totemismo. Gehlen risulta a proposito piuttosto esplicito e nella quarta edizione di L’uomo afferma: «Mi corre qui l’obbligo di rettificare quanto, nelle prime tre edizioni del libro, avevo esposto negli ultimi capitoli, intitolati “Sistemi direttivi superiori” […] [infatti] appare inammissibile porre in rapporto diretto questi sistemi direttivi con la costituzione biologica dell’uomo (anche nell’accezione più ampia del termine)»[2].

L’idea che il comportamento umano possa essere un risultato fortuito di una deviazione patologica dalla vita risulta poco convincente. Ma anche la tesi che il comportamento umano sia il risultato d’un principio d’autorità introiettato, di un autodisciplinamento e di una repressione imposta dall’esterno per motivi di sopravvivenza rischia di rivelarsi un’interpretazione eccessivamente riduttiva che lascia aperti troppi problemi. Tale autodisciplinamento risulta molto più interessante se viene sottratto alla categoria delle necessità, se viene visto non come qualcosa di imposto sotto la minaccia della sopravvivenza (e che paradossalmente finisce per produrre un ego che si limita da solo perché in realtà non riconosce limiti al di fuori di se stesso) ma come la percezione di un limite alla propria libertà nel senso della nescienza socratica o dell’humilitas cristiana. E del resto l’ispirazione che alimenta l’artista o il demone di Socrate sembrano seguire una logica ben distinta. La scelta di un valore estetico al posto di un valore vitale sono veramente spiegabili in base a tale meccanismo di imposizione? In base a che cosa si costituisce questo atto della preferenza verso un valore estetico? Già Freud stesso, nota Scheler, si rende conto che qui non si segue semplicemente la logica tesa a rafforzare il valore vitale e ponendosi «oltre il principio di piacere» si distacca da un puro riduzionismo naturalistico ed è costretto ad ammettere una dialettica fra eros e thanatos.

Nell’ipotesi scheleriana tale pulsione di morte si rovescia in qualcosa di positivo: diventa l’esigenza di trascendere il puro principio di piacere in direzione dei valori personali. Nel farsi uomo la vita è stata costretta ad un salto mortale, a rischiare il tutto per tutto, per questo ha dovuto imboccare una via degenere dal punto di vista dei valori vitali, ha dovuto rinnegare se stessa, le proprie categorie, la propria logica. Ma in questo salto, in cui ha rinunciato ad essere orientata dai valori vitali, sarebbe sicuramente caduta nel nulla se non avesse improvvisamente scorto, al di là d’essi, una nuova classe di valori e con essa un nuovo punto di riferimento.

La questione decisiva è però che Freud, Seidel e Gehlen in definitiva assumono come punto di partenza, come premessa, ciò che per Scheler è invece solo un punto di arrivo: un risultato tutto da indagare e da capire: «La mancanza originaria di tutte le teorie negative dello spirito consiste nel fatto che esse non danno la minima traccia di risposta alla domanda fondamentale: che cosa dunque nega nell’uomo, che cosa dunque nega la volontà di vivere, che cosa reprime i Triebe? E in base a quale diverse motivazioni fondamenti l’energia del Trieb repressa viene sublimata una volta in neurosi e un’altra in un’attività che dà forma alla cultura?» (GW IX, 48).

Molte delle teorie antropologiche del primo Novecento, influenzate da Schopenhauer, affermavano che l’uscita dal comportamento istintivo appare, dal punto di vista della vita, la conseguenza d’una malattia, d’un processo di degenerazione, brevemente: un «cancro della vita». Scheler stesso contribuì molto negli anni Dieci a diffondere tale tesi, tuttavia se si tratta di una malattia occorre individuare il virus scatenante. Il rischio è che la comprensione dell’essenza umana sfugga o venga fraintesa se si considera l’uscita dal comportamento istintivo come una «malattia» inspiegabile, come un presupposto non indagabile o un evento casuale. Il motivo di tale uscita risulta infatti la questione centrale relativa all’essenza dell’uomo.

Per Scheler l’eccedenza pulsionale non è uno straripamento patologico delle pulsioni oltre gli argini dell’istinto a cui si rimedia con una costruzione artificiale. Questi argini in realtà non hanno mai funzionato meglio e non permettono mai una qualche forma di eccedenza pulsionale. Tale eccedenza ha delle cause ben precise che trascendono la logica dell’istinto. 

6. L’uomo come Neinsager e la teoria dell’esonero.

Qual è allora il fattore scatenante che determina l’uscita dal comportamento istintivo? Secondo Scheler è il «dire di no» ai valori vitali grazie all’azione esercitata concretamente dal campo gravitazionale d’una nuova classe di valori. L’inibizione, il «no!», l’autodisciplinamento delle pulsioni biologiche non sono quindi la reazione dell’istinto di sopravvivenza di fronte alla rottura degli argini dell’istinto stesso, ma l’intuizione di un arricchimento e di un potenziamento esistenziali. Occorre rovesciare radicalmente i termini della questione: l’inibizione non è il rimedio bensì la causa dell’eccedenza.

Domandarsi perché l’uomo ha iniziato a dire di no equivale a chiedersi qual è il motivo che ha condotto all’arresto del meccanismo istintivo. A paragone «degli animali, che dicono sempre di sì alla realtà […] l’uomo è “colui-che-può-dire-di-no”, “l’asceta della vita”, l’eterno protestante nei confronti della semplice realtà» (GW IX, 44). L’uomo si distingue dagli altri esseri viventi in quanto è il Neinsager, cioè colui che è capace di dir di no al soddisfacimento immediato d’una pulsione istintiva perché vive già dentro di se uno scarto temporale. È colui che è capace di prendere distanza, che si dà tempo e scarica nel futuro il soddisfacimento, mantenendosi nel contempo disponibile all’accoglimento di ulteriori stimoli e determinando, così, l’occasione per un’attività selettiva fra opzioni diverse. Ma il rinvio del soddisfacimento è possibile solo come conseguenza d’un moto «ascetico». Ma di quale natura sono le «corde» che legano questo Ulisse consentendogli di resistere alle lusinghe del soddisfacimento immediato? Qui sublimazione significa: l’uomo è quell’essere che grazie al suo centro personale è in grado di rapportarsi asceticamente verso il proprio centro pulsionale. L’uomo è la «bestia cupidissima rerum novarum […] sempre desiderosa d’infrangere i confini del suo qui-ora-così e di trascendere la realtà ambientale che la circonda. […] In questo senso anche Sigmud Freud vede nell’uomo un “inibitore di pulsioni”. E soltanto attraverso questo non occasionale bensì costituzionale “no” alla pulsione […] l’uomo può sublimare le sue energie pulsionali verso un’attività spirituale» (GW IX, 45).

Nel dir di no ai valori vitali si mette in atto una capacità ascetica di selezione che scarica il soddisfacimento nel futuro e determina l’apparizione di quello iato temporale fra pulsione e reazione che caratterizza il comportamento non istintivo.

Nel Formalismus Scheler chiama questo processo di sublimazione col termine di «esonero» (Entlastung) e lo connette al problema della gerarchia dei valori: ciò che dal punto di vista del valore personale risulta una Entlastung, dal punto di vista del valore vitale appare solo un surrogato: «Il bene strumentale dal punto di vista del bene organico vitale […] appare come un misero surrogato […]. Invece in rapporto al bene culturale si rivela uno strumento di esonero [Entlastung] e di liberazione dello spirito e della persona individuale […]. Del tutto analogamente la società, e il suo ethos, risulta un mero fenomeno negativo di dissoluzione dal punto di vista della comunità vitale e del suo ethos, invece se considerata come co-fondamento essenziale di una possibile comunità spirituale di persone […] rappresenta un valore socialmente positivo ed essenziale» (GW II, 528). Qui la società e l’organizzazione sociale del lavoro diventano espressione di quel processo di esonero che consente d’innalzare verso l’alto una parte delle energie e del tempo che altrimenti avrebbero dovuto essere totalmente dedicate all’attività di pura sopravvivenza.  

7. Eccedenza pulsionale o eccedenza di fantasia?

Ma per capire la posizione di Scheler occorre eliminare un altro equivoco: ciò che caratterizza la situazione di partenza dell’uomo non è l’eccedenza pulsionale (come in Seidel e Gehlen) bensì l’eccedenza di fantasia, dove fantasia viene ad indicare una sorte di percezione originaria e fondante. In un certo senso si potrebbe parlare di «eccedenza esistenziale»: l’uomo non è afflitto dal pericolo di venir ucciso da un eccesso di stimoli non più selezionati dell’istinto, ma piuttosto è intristito spinozianamente dall’estrema povertà della selezione istintiva. Il rimanere nell’orizzonte di tale percezione impedisce la «gioia attiva» in quanto limita la propria potenza esistenziale[3].

Nella prospettiva di Scheler la tesi di Seidel e Gehlen, secondo cui la crisi del comportamento istintivo provocherebbe l’eccedenza pulsionale e il conseguente pericolo di morte, risulta del tutto insensata: la semplice rottura del meccanismo selettivo alla base dell’istinto non provoca un’eccedenza di pulsioni e stimoli ma all’opposto la cancellazione di ogni possibile pulsione e stimolo in quanto la percezione non è un’onda del mondo che preme sull’uomo e che senza la mediazione del filtro istintivo lo spazzerebbe via. La percezione sensibile è piuttosto un’onda prodotta dal riflesso sul mondo del raggio di rilevanza della struttura pulsionale e che si annulla o rafforza con esso. Non esiste stimolo senza ambito di rilevanza e di conseguenza eliminare l’ambito di rilevanza dell’istintivo non significa l’esplosione di un’eccedenza di stimoli, ma al contrario l’implosione completa di ogni stimolo.

Lo stesso superamento del meccanismo istintivo è possibile solo attraverso l’emergere d’una nuova rilevanza, capace di illuminare il mondo secondo una nuova logica. L’uomo sente che la fessura corrispondente alla rilevanza istintiva risulta un’immagine troppo limitata del mondo e brama a spalancare il proprio occhio sul mondo.

Il dato di partenza è lo iato, lo scarto, il vuoto fra le aspettative di un essere che risulta già sensibile al un nuovo campo gravitazionale e la povertà di un mondo filtrato attraverso l’istinto e la sensazione. Tale essere, contagiato dai valori personali ma ancora immerso nella logica istintiva, compie l’esperienza di un vuoto insostenibile. Scopre l’eccedenza della propria capacità percettiva nei confronti della percezione sensibile. Sperimenta la diversità, o meglio la propria ex-centricità nei confronti del centro vitale, quindi la trascendenza nei suoi confronti e della sua logica. L’uomo dice di no alla rilevanza sensibile perché è già insoddisfatto nei suoi confronti, e questo dire di no non può essere ridotto ad un imperativo categorico, o ad un autodisciplinamento imposto dall’istinto di sopravvivenza. L’eccedenza di fantasia nella sua ex-centricità sottintende qui un ulteriore rinvio. 

8. L’uomo ex-centrico come gesto della trascendenza.

Proprio il fatto che l’uomo sia stato spinto a costruire un ambiente artificiale dimostra che egli, dal punto di vista dei valori vitali, è solo un «animale malato». Le analisi che Scheler conduce su questi temi, sulla scia di Schopenhauer, e che verranno pubblicate nel 1914 nello scritto Zur Idee des Menschen, troveranno larga risonanza nel clima culturale tedesco del primo dopoguerra. L’uomo è l’animale più debole: «Un animale che ha sostituito la mancanza di buoni denti, artigli, ecc. con la pura astuzia non può essere certo considerato qualcosa di più elevato rispetto al restante mondo vivente. Al massimo potrebbe venir considerato “l’animale ereditariamente malato” […] Chi non vede che, se spirito e intelletto fossero solo una astuta prudenza, un “voir pour prévoir”, se essi consistessero solo in utili armi nella “lotta per la sopravvivenza”, allora essi sarebbero necessariamente le peggiori, le più basse e volgari di tutte queste armi, cioè solo meschini surrogati di nuove formazioni organiche, concepibili inoltre solo là dove lo sviluppo della vita verso le organizzazioni superiori ristagna?» (GW III, 184). Ciò che nell’animale è regolato infallibilmente dall’istinto nell’uomo deve esser faticosamente raggiunto attraverso l’intelligenza. Quest’ultima, come l’utensile, non è altro che la conseguenza d’una condizione di svantaggio: «Così come l’utensile è il semplice surrogato d’una incompleta formazione dell’organo stesso, tanto che la sua costituzione è in primo luogo conseguenza d’una stagnazione e fissazione del puro sviluppo vitale, altrettanto l’intelletto è […] il surrogato di un istinto divenuto insicuro o divenuto assente» (GW III, 185).

L’intelligenza pratica, quella che produce l’utensile, non può essere considerata come il momento distintivo, l’essenza ultima dell’uomo, in quanto proprio tale razionalità strumentale è la prova più schiacciante dell’inferiorità biologica dell’uomo. Qui si tratta di prender le distanze sia dalla tesi aristotelico-razionalista sia da quella positivo-evoluzionista: «non si può caratterizzare l’“animale intelligente e dotato di utensili” come l’apice dello sviluppo vitale, come fa Herbert Spencer, ma piuttosto come l’animale costitutivamente malato, l’animale in cui la vita compie un faux pas e si trova in un vicolo cieco» (GW III, 185).

Ma Scheler non si limita a sviluppare la strada che fu di Schopenhauer, e che verrà percorsa anche da Klages: in realtà egli utilizza il risultato ritorcendolo contro l’esaltazione dell’homo faber. L’uomo non può essere posto al vertice della scala biologica, tuttavia proprio questa sua inadeguatezza nei confronti della vita indica la sua ex-centricità. In altri termini: se il risultato culmina nell’homo faber o nell’animal rationalis, allora è difficile non ricadere in una concezione negativa dell’uomo stesso, in quanto l’inferiorità biologica si traduce in un meschino surrogato della vita. Non così se l’uomo risulta essere l’atto radicale di una trascendenza, se la sua essenza si pone oltre la sfera biologico-istintiva, e oltre lo stesso homo faber.

Proprio quell’animale malato, che dal punto di vista del vitalismo decadente appare sicuramente qualcosa di abominevole, si palesa, dal nuovo punto di vista, «qualcosa di bello, grande e pienamente nobile»: proprio attraverso la sua attività simbolico-culturale egli diventa infatti «l’essenza che trascende la vita». «“Uomo” in questo senso del tutto nuovo è l’intenzione e il gesto della “trascendenza” stessa […] l’uomo è la preghiera che la vita eleva al di sopra di se stessa» (GW III, 186).

Che cosa significa che l’uomo è il «gesto stesso della trascendenza»? Questa intenzione diventa uno dei caratteri centrali dell’uomo. Essa va radicalizzata: non basta dire che l’uomo cerca Dio, bisogna piuttosto affermare che l’uomo è quella X, qualunque essa sia, che cerca Dio. Una riflessione più che sufficiente per sollevare l’accusa di teomorfismo. Altrettanto l’ultimo periodo è stato interpretato all’insegna dell’antropomorfismo. È possibile rileggere l’antropologia di Scheler al di fuori di questo schema?

Questo schema sicuramente non funziona per l’ultimo periodo, quando Scheler ribadisce che «l’uomo non può inventarsi la religione […] perché è uomo solo grazie alla sua apertura spirituale al divino» (GW XII, 299; ma anche IX, 68). Si deve parlare allora di teomorfismo anche per l’ultimo periodo?

Scheler ha continuamente affermato che l’uomo non ha la scelta di formarsi o non formarsi un’idea o una disposizione verso il divino, in quanto egli «ha necessariamente una tale idea e sentimento, consapevolmente o inconsapevolmente […]. Egli ha solo la scelta di formarsi un’idea sull’assoluto verosimile e razionale o inverosimile e irrazionale. Tuttavia la sfera di un essere assoluto […] appartiene all’essenza dell’uomo e forma assieme all’autocoscienza, alla coscienza del mondo, al linguaggio e alla consapevolezza una struttura inscindibile» (GW XII, 76). In questo passo dell’ultimo periodo (ma se ne sarebbero potuti citare di simili dal periodo intermedio) emerge la consapevolezza che l’uomo si trova nella difficile situazione di avere in sé, necessariamente, una tensione verso il divino, senza però che questo sia determinabile in modo sicuro o addirittura sia consapevolmente riconosciuto. Questo non è però teomorfismo: non si parla di un uomo che prende la forma del divino, quanto di un uomo che si rivolge ad un divino che non ha una forma precisa. L’essenza dell’uomo non è deducibile da un’idea di Dio già predefinita, in quanto Dio (e questo già nel periodo intermedio) viene indicato come una X indefinibile: «la radice di tutte le culture è la X verso cui è diretta la preghiera e il movimento di un amore sacro: Dio» (GW III, 186).

Ma anche l’uomo rimane indefinibile: «L’errore delle dottrine finora elaborate sull’uomo consiste nel voler inserire fra “vita” e “Dio” una stazione fissa, un qualcosa definibile come essenza: l’uomo. Tuttavia questa stazione intermedia non esiste e proprio la indefinibilità appartiene all’essenza dell’uomo. Egli è solo un “esser in mezzo” un “confine” un “passaggio”, una “manifestazione di Dio” nella corrente vitale e un eterno elevarsi della vita al di sopra di se stessa. Con ciò è risolta una volta per sempre la questione della definizione. Un uomo definibile sarebbe di per sé privo di senso» (GW III, 186). È questo a mio avviso il risultato più importante raggiunto nel 1914: se è sbagliato cercare di dedurre l’uomo da Dio o dall’animale, altrettanto sarebbe sbagliato pensarlo come una stazione intermedia, fissa e definita una volta per sempre: al contrario l’uomo è il gesto, qualsiasi forma esso assuma, della vita che si eleva consapevolmente al di sopra di se stessa in direzione del divino.

In definitiva: «Una cosa per il fatto di iniziare ad elevarsi al di sopra di se stessa e di cercare Dio è di per sé un “uomo” al di là di come possa apparire» (GW III, 189). L’uomo non è definibile biologicamente proprio perché non è di per sé un mammifero bipede col pollice riverso, e anzi in un’altra era potrebbe identificarsi con un essere biologicamente molto diverso. Per questo l’uomo risulta indefinibile relativamente ad una determinata struttura morfologica, per questo l’essenza dell’uomo sfuggirà sempre a qualsiasi definizione biologica.  

9. L’eros come spinta propulsiva dell’esonero.

Si è già osservato come in Scheler la tematica freudiana della sublimazione venga ripensata in base al problema platonico dell’eros. La proposta finale risulta una via intermedia fra Platone e Freud: una sublimazione agapica che sposta le energie verso l’alto e l’organizzazione verso il basso. In tale prospettiva è l’eros che diventa la spinta propulsiva capace di trascendere la logica dell’istinto. Questo però significa che secondo Scheler l’uomo è definibile solo attraverso l’eros: l’uomo è costitutivamente l’essere erotico-estatico.

Nell’eros si esplicita un subitaneo rivolgimento dalla logica dei valori vitali, capace di offrire una nuova prospettiva e un nuovo ambito di rilevanza anche all’intelligenza. Certo «l’animale ha nella percezione, nella rappresentazione e nell’istinto forme elementari d’intelligenza e molteplici tipi di sapere, queste tuttavia rimangono sempre confinate all’interno della logica dell’utile e del dannoso, quindi nei confini della sua organizzazione [psico-vitale] […] inoltre nei confini del suo mondo-ambiente, ma questi confini sono spessi come muri e gli chiudono l’ampiezza e la grandezza dell’universo» (GW XII, 130). L’uomo diventa tale rompendo tali argini: il suo sguardo si rivolge ora liberamente al mondo senza limitarsi più a vedere solo un riflesso del proprio organismo o del proprio ego. Il suo nuovo sguardo tradisce la consapevolezza di un essere che riconosce un valore autonomo all’altro da sé.

L’eros è fra le più alte funzioni psichiche conosciute, ancora più originario dell’intelligenza e della capacità di scelta, anzi la possibilità che queste funzioni hanno di estendersi oltre la rilevanza biologica è essa stessa un risultato dell’eros: «Il motivo per cui negli esseri vertebrati superiori il pensiero mediato e l’atto di scelta rimangono materialmente così limitati e compiono percorsi così brevi è una conseguenza della mancanza dell’eros. L’eros è contemporaneamente ciò che obiettiva e nello stesso tempo de-realizza» (GW XII, 232).

Tuttavia se l’eros è esteso a tutta la natura solo nell’uomo diventa consapevole a se stesso, ed è questo a tracciare il vero confine fra l’uomo e le altre forme viventi: «Il riflesso della sua [dell’eros] grazia sorridente irrompe nelle belle forme di tutta la natura. Però solo nell’uomo egli compare come vissuto soggettivo in occasione dell’ascesi del Trieb. Egli diviene consapevole a se stesso» (GW XII, 236).

L’eros «diventa la fonte del “preferire”, una funzione sconosciuta agli animali» (GW XII, 233). Esso infatti non si orienta più secondo la logica binaria del positivo-negativo e della reazione immediata, tipica del comportamento istintivo. Nell’atto del preferire non si tratta più di decidere se dire di si o di no, subito, ad uno stimolo, ma di scegliere fra diversi stimoli prendendo tempo. Per questo «la sua opera è quella di liberarsi dagli impulsi del momento» (GW XII, 233). Ma liberandosi dalla logica del momento, l’eros si scopre il soggetto in grado di dire di no ai valori biologici, di padroneggiarli, di rendersi autonomo da essi. In esso inizia il processo di sublimazione che definisce costitutivamente l’uomo: un processo di aumento di complessità e di referenzialità che infine sfocia nell’atto dell’apertura estatica al mondo.

Nel superamento del comportamento istintivo l’eros mette in luce una componente ascetica. Un facile moralismo ha invece svalorizzato con tenacia l’eros impedendo la comprensione positiva di questo momento e del suo intimo e necessario legame con l’agape: l’eros, questo mortificatore portentoso degli istinti, nel prolungamento dell’intervallo fra desiderio e appagamento spezza definitivamente l’automatismo alla base della vita istintiva; nella sospensione dell’immediatezza, nello scarto essenziale fra stimolo e risposta, egli è in grado di compenetrarsi profondamente col moto agapico ponendo le condizioni per uno spostamento di energie verso l’alto. In questo differimento l’appagamento viene strappato dal controllo delle forze istintive e posto prima al servizio dell’intelligenza pratica e dell’ego e, successivamente, della persona. L’istinto prima, e la concupiscenza e la volontà di dominio poi, rappresentano invece la direzione inversa: quella in cui l’eros si rende impermeabile all’agape e abbrevia inesteticamente l’intervallo rendendolo sempre più automatico.

Nell’eros si attua un rinvio dell’appagamento che dà origine ad una nuova logica temporale: «L’eros amplia i materiali dell’aspettativa e della mneme e anche qui conduce fino ai confini dell’anamnesi così come alla speranza oggettiva e al temere come modi dell’aspettativa. L’eros è padre della “Sensucht”, dell’amore distanziato. L’ottica come senso a distanza [Fernsinn] è il suo veicolo preferito in quanto egli stesso è amore a distanza» (GW XII, 232). Qui è importante tener presente l’accenno al passato e al futuro: proprio perché l’eros ci libera dalla logica della risposta immediata esso produce una nuova dimensione temporale, ampia la nostra azione al passato e al futuro, percepito come tempo dell’aspettativa e del timore.

10. Le ali dell’eros. 

In Platone, sostiene Scheler, la teoria dell’eros ha già un significato ontologico: è la tendenza universale dall’indeterminatezza originaria all’esistente, la pulsione all’incremento ontologico e all’innalzamento dell’uomo verso Dio (cfr. GW IX, 255). Ed è sempre l’eros platonico che consente il superamento dell’esperienza sensibile, anticipando così temi scheleriani dell’apertura al mondo e dell’antropologia filosofica. «Egli lo chiama a volte “il movimento delle ali dell’anima”, altre l’atto dello slancio del nucleo della persona verso le essenze, ma non nel senso che queste essenze sarebbero oggetti a se stanti al di sopra di quelli empirici, ma nel senso di slancio verso l’essenza d’ogni oggetto particolare. Ed egli caratterizza la dinamica interna alla persona e producente tale slancio […] come la forma più alta e pura dell’eros» (GW V, 67). Qui non c’è più traccia della teoria canonica delle idee e l’attenzione viene piuttosto spostata verso la connessione già rintracciabile nel testo platonico fra filosofia, sublimazione ed eros: Platone affermando la necessità d’uno slancio capace di superare il piano sensibile e ancorandolo alla tendenza più generale dell’eros «ha aperto per sempre le porte della filosofia all’umanità» (GW V, 68). Il che vuol dire che ha posto le basi anche per la comprensione dell’essenza ultima dell’uomo.

È noto che la connessione fra eros e filosofia viene affermata da Platone in modo inequivocabile. Tale funzione intermediatrice è ben presente anche in Scheler. Eros dice di no ad un valore vitale ma solo perché già attratto dalla bellezza d’un valore superiore, e nello spazio creato da questo scarto, nella mancata reazione automatica di appagamento d’uno stimolo, sorge il moto di sublimazione. Nella sublimazione esonerante dell’eros Scheler risolve il problema d’individuare la fonte delle energie alla base del vertere ai valori superiori: la gerarchia dei valori è concepibile solo presupponendo una spinta propulsiva capace di differire energie verso livelli sempre meno ripetitivi, e capace di trascinare verso l’alto chi si trova in questa corrente. È nello spazio aperto dalla natura profondamente ascetica dell’eros che prende le mosse lo slancio filosofico: ciò che risulta ascetismo per il centro vitale diventa erotismo per quello personale. Qui non è più necessario considerare la cultura come un surrogato, come un meccanismo costruito più o meno casualmente in modo da assicurare la sopravvivenza ad un essere malato. La persona diventa invece centro concreto di sublimazione e questo innalzamento delle energie diviene possibile perché la bellezza risulta in grado di esercitare la sua forza gravitazionale già sul piano sensibile.

In un passo molto famoso Platone attribuisce alla bellezza la capacità di far rispuntare le ali al filosofo: l’eros è quella mania per cui quando uno vede la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza, mette le ali (Fedro, 249 d). La tesi che traspare in questo passo è quella dello straordinario privilegio che Platone conferisce all’idea della bellezza, vista come cittadina di due mondi: unica fra tutte le idee essa si manifesta anche nella dimensione sensibile, costituendo pertanto un momento di connessione fra mondo sensibile e intelligibile. Così nel Fedro: «Ora, la bellezza, come s’è detto, splendeva di vera luce lassù fra quelle essenze, e anche dopo la nostra discesa quaggiù l’abbiamo afferrata con il più luminoso dei nostri sensi, luminosa e risplendente. Perché la vista è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo […] [ma non] può vedere le altre essenze che son degne d’amore. Così solo la bellezza sortì questo privilegio d’essere la più percepibile dai sensi e la più amabile di tutte» (Fedro, 250 d) [4].

La bellezza è l’unica idea visibile con gli occhi dell’eros già nel mondo sensibile, ed è per questo che seguendo la bellezza l’eros è in grado di metter le ali al filosofo. L’eros, inseguendo la bellezza, permette a chi si trova in questa corrente di farsi trascinare verso l’alto, perché assieme alla bellezza s’insegue il Bene. Ma che cosa rimane allora della canonizzata teoria del dualismo platonico?

La bellezza si palesa come lo splendore con cui il Bene si fa vedere e desiderare, su questo ha efficacemente insistito Gadamer: «La luminosità dell’apparire non è solo una delle proprietà del bello, ma ne costituisce la vera e propria essenza. La caratteristica del bello, per cui esso attira immediatamente su di sé il desiderio dell’anima umana, è fondato sul suo essere stesso […]. Risplendere però significa risplendere su qualcosa, come il sole, e quindi apparire a propria volta in ciò su cui la luce cade»[5]. La bellezza è il riflesso del Bene sul sensibile attraverso gli «occhi dell’eros» e questo avviene per gradi: dalla bellezza dei corpi a quella delle anime. Per gradi risulta pure il processo di sublimazione e di progressivo differimento delle energie previsto da Scheler.

In altri termini la bellezza sembra il modo di esplicarsi del divino, la «visibilità» del divino, l’esperienza del divino. La luminosità della bellezza nel mondo significa che esiste una spinta alla trascendenza estatica già operante nel mondo sensibile: la sublimazione è possibile solo perché i valori estetici agiscono già dentro il mondo sensibile. Solo in quanto l’eros vede e si nutre della bellezza l’uomo riesce ad innalzarsi asceticamente al di sopra del mondo-ambiente: pur supponendo una profonda crisi e rottura come causa del passaggio, quest’ultimo non potrebbe avvenire se già nella sfera sensibile non fosse presente il riflesso di una logica diversa.

Tuttavia nella prospettiva di Scheler, contagiata da Marx e Freud, questo processo di sublimazione assume una fisionomia nuova. In Platone ci s’innalza sempre di più fino al Bene: innalzandoci abbandoniamo le illusioni (mondo sensibile) e ci portiamo dietro solo gli aspetti positivi. In Scheler invece il mondo sensibile non è solo un’ombra della vera realtà, ma rimane un livello ben determinato del reale e inoltre pur sempre la riserva d’energie per le sfere superiori. Altrettanto l’esperienza del divino non si caratterizza nel senso della beatitudine, né ci assicura l’assenza del tormento del dolore.  

11. Passaggio dall’appagamento immediato al godimento della visione. 

La grandezza dell’eros è quella di erigersi al di sopra della necessità che domina il mondo dei valori vitali e di diffondere una nuova visibilità e con essa una nuova dimensione temporale. Propriamente l’eros rende visibile il mondo in quanto «distoglie il nostro sguardo dall’utilizzabilità dei beni a disposizione, anche se in un primo tempo la sposta solo in direzione dei valori estetici» (GW XII, 232). Nella reazione automatica stimolo-risposta il sistema organico rimane invece cieco: associando immediatamente allo stimolo la propria possibile reazione l’istinto «vede» solo il proprio appagamento, rimanendo completamente indifferente nei confronti del contenuto attraverso cui si appaga. Nella logica istintiva gli «occhi» del sistema organico non hanno il minimo interesse a «guardare»: il raggio di rilevanza di tale sguardo è solo quello dell’utile e del dannoso, qui c’è solo l’«occhio» dell’animale che scandaglia il proprio mondo-ambiente alla ricerca dei riflessi dei propri istinti. In tutti questi casi non solo non si vede l’altro ma non si raggiunge neppure una visione oggettiva del mondo circostante.

Proprio come osserva Plotino, eros sembra strettamente connesso al verbo orao (vedere): eros è nato «come un occhio pieno, come visione che ha in sé la sua immagine; e forse la sua denominazione deriva dal fatto che egli ottiene la sua esistenza dalla visione». Più volte Plotino afferma che eros è l’occhio nato dal desiderio, che eros «è l’occhio del desiderio che permette all’amante di vedere l’oggetto desiderato, correndo egli stesso per primo dinanzi e riempiendosi di questa visione ancor prima di aver dato all’amante la facoltà di vedere col suo organo»[6]. Ed è forse in questo senso che si può intendere anche il verso di Schiller secondo cui solo attraverso il portale della bellezza si accede alla terra della conoscenza: nella scansione temporale determinata dall’eros l’appagamento viene distanziato in un oggetto da desiderare e tale desiderare consente di vedere il vedere e di aprire per sempre le porte al mondo visivo e della conoscenza.

Dilazionando l’energia della pulsione sessuale e ponendola al servizio dell’attività percettiva l’eros si palesa come il vero artefice dell’occhio umano. «Il fatto che l’uomo a differenza dell’animale sia capace d’una visione del mondo “disinteressata” relativamente agli impulsi organici […], che possa in generale considerare il mondo come immagine, questo dipende esclusivamente dall’eros» (GW XII, 230). Lo spostamento d’interesse sull’immagine sottintende uno spostamento del campo di rilevanza dall’oggetto di consumo alla forma dell’oggetto. L’eros cerca di «vedere» l’oggetto del Trieb, sposta il desiderio all’esterno.

Con l’aiuto della Drangphantasie egli costituisce una nuova dimensione percettiva in quanto cerca l’appagamento attraverso la visione, cioè desidera percepire la forma: l’eros «è il Drang divenuto vedente» (GW XII, 236). La rivoluzione cosmica implicita nell’eros è tutta implicita nella sua capacità di vedere l’oggetto del desiderio, là dove l’impulso e l’istinto rimangono «ciechi» perché troppo impegnati ad appagarsi immediatamente. La percezione della forma (Gestalt) consente inoltre di relazionare l’oggetto indipendentemente dalla particolare struttura pulsionale psico-fisica dell’osservatore (cfr. il concetto di Sachverhalt) e in questo senso gli «occhi dell’eros» vedono veramente un mondo nuovo.

Questo concetto viene riassunto da Scheler stesso nel passo seguente: 

«L’eros è energia pulsionale sessuale sublimata spostata nel sistema percettivo sensibile e nelle sue funzioni del vedere, udire, annusare ecc.. Quando nell’uomo questa componente energetica cessa di porsi al servizio dell’atto puramente sessuale e riproduttivo e ravviva sempre di più le percezioni rendendole oscillazioni di rilevanza autonoma, soltanto allora diviene possibile guardare il mondo per le sue immagini e con un piacere funzionale a questo sguardo. Soltanto allora diviene possibile una visione oggettiva del mondo nei confronti dell’uomo (come soggetto) e la trascendenza dell’immagine (come datità) nei confronti dell’animale, le cui percezioni sensibili sono ancora fuse con singole pulsioni e affetti. Soltanto in tal modo l’energia dinamica del Drang può liberarsi anche da ogni pulsione limitata. Questo succede dapprima come puro “godimento” del mondo come immagine, diventando un motivo originario dell’arte […] ma nel “godimento” (come comportamento specifico dell’uomo) persiste ancora : 1) La riflessione e la referenza all’Io; 2) La distanza dal goduto. Questo avviene inoltre nel Mit-leiden al contrario dell’Eins-leidung e dell’Eins-freuung propri dei rapporti di simpatia. […] però l’eros (simpatia) è in grado, come pura energia edonistica o sofferente del guardare del guardabile (accesso al bello oggettivo), di slegarsi da ogni autoreferenza dell’individuo vedente. Soltanto qui egli è estaticamente e cosmo-centricamente» (GW XII, 229-230). 

Nell’eros la visione del Bild sostituisce l’appagamento immediato perché l’appagamento diventa appagamento estetico, appagamento nel bello. Un appagamento immediato non lascia spazio all’erotismo: l’erotismo ha luogo solo quando il desiderio non viene appagato subito ma si nutre di un rinvio, di una diluizione continua e discreta del godimento vissuto assieme all’altro. È questo che distingue, anzi contrappone l’atto sessuale istintivo all’erotismo. Solo nell’eros i Bilder riescono a spogliarsi dalla loro rilevanza puramente istintuale, cessano di essere il semplice indice di ciò che risulta dannoso o utile per la struttura pulsionale.

Tuttavia questo mondo di immagini non corrisponde ancora alla visione dell’uomo che si apre al mondo. Qui emerge il problema fondamentale della connessione che Scheler stabilisce fra eros e agape. Se l’eros è la fonte delle energie del Geist, l’agape è la fonte di orientamento del Drang. L’errore fondamentale della concezione platonica dell’essere è quella di pensare che sia l’eros da solo a render accessibile l’idea. Ed è l’estremizzazione di tale idea che poi dà origine a quella metafisica della presenza così duramente criticata da Heidegger, quella che come abbiamo già visto «pietrifica» le idee. In Scheler invece viene compiuto il tentativo di rileggere e trasformare il discorso platonico in una direzione inversa.

L’eros per Scheler rimane ancorato alla sfera del Bild e al massimo giunge alla forma. L’erronea tesi che lo vede invece capace di cogliere l’essenza risulta connessa all’illusione tutta greca circa l’esistenza di un nous poietikos a cui Scheler contrappone la tesi dell’impotenza dello spirito.

 

NOTE


[1] A. Seidel, Bewußtsein als Verhängnis, Cohen Verlag, Bonn 1927.

[2] A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1990, 429.

[3] È bene precisare che il termine scheleriano di fantasia non ha nulla a che fare con quello spinoziano di immaginazione. Le analogie con Spinoza non devono inoltre far dimenticare che in Spinoza manca il senso della rottura fra l’ego e Dio, rottura che invece Scheler eredita da Schelling. Sugli aspetti positivi dell’etica spinoziana cfr. G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Milano, Guerrini e Associati, 1991; R. Bodei, Geometria delle passioni, Milano, Feltrinelli 1991.

[4] Qui e di seguito cito dalla traduzione di: Platone, Opere complete, Roma-Bari, Laterza, 1984.

[5] H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983, 549.

[6] Plotino, Enneadi, tr. it. di G. Faggin, Milano, Rusconi, 1992, III 5.